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La relazione di Sabato Visco al settimo convegno Volta
 

L’Impero italiano era stato proclamato nel 1936 e l’interesse dell’Italia per le popolazioni delle proprie colonie si estende anche ad aspetti quali il regime alimentare degli “indigeni”, le attività lavorative, le produzioni agricole, gli usi e i costumi, l’andamento demografico.
Durante il settimo convegno Volta, la relazione del fisiologo Sabato Visto sul tema: “L’alimentazione nelle colonie e nei possedimenti italiani: indigeni e coloni”, corredata di numerose tabelle, risulta particolarmente interessante per le documentate informazioni di carattere sociale, economico, etnografico che fornisce circa le popolazioni delle isole dell’Egeo dei paesi dell’Africa Italiana.

Ecco uno stralcio della relazione di Visco, riguardante, nel caso specifico, le abitudini e le condizioni alimentari degli abitanti dell’isola di Rodi:

La popolazione ha per professione esclusiva o prevalente l’agricoltura. Nei mesi durante i quali l’attività agricola è più pronunziata i contadini fanno cinque pasti quotidiani, piccoli e ripartiti nella giornata dalle ore cinque alle venti. Nell’inverno i pasti sono ridotti a tre ogni giorno.
La popolazione vive prevalentemente con cibi di origine vegetale. Il pane è confezionato con farine di frumento e di orzo. La panificazione, in tutti i centri rurali, è casalinga, ed il pane si prepara settimanalmente in grandi forme del peso di circa un chilogrammo.
La carne vi è di scarso consumo, appena una volta per settimana, e neppure da tutta la popolazione.
[…]
Ricordo alcuni cibi locali: il birgur, il trahanà, il halvà, ed una bevanda che, dove prosperra la viticoltura, sostituisce il miele, il petmèsi.
Il birgur è costituito di chicchi di grano bolliti in acqua e poi asciugati al sole e conservati. Al momento dell’uso vengono grossolanamente frantumati in un mortaio, e poi cotti in brodo o in acqua e conditi con burro o olio.
Talvolta le minestre vengono preparate con frumento bollito e condito con miele e zucchero. Questa pietanza è detta cumà o còlliva e ricorda il miracolo di S. Giorgio che, durante un assedio, fece resistere i suoi soldati alimentandoli con frumento bollito.
Il trahanà, come indica il nome, è il cibo prelibato degli aristocratici, ed i suoi ingredienti sono: frumento grossolanamente macinato, e latte scremato, che prima aveva subito la fermentazione acida per 40 giorni in recipienti di terracotta e in luogo fresco. La pasta che se ne ottiene si taglia in pezzetti, si asciuga al sole, e si conserva per essere adoperata, durante l’anno, nella preparazione delle minestre, con il riso ed il semolino.
Il halvà è fatto con il miele, olio di sesamo ed una speciale radice che ne costituisce l’impalcatura.
Tra i vegetali merita particolare mensione una malvacea detta bamia che ha un sapore speciale ed ordinariamente poco gradito a chi non vi è abituato.
[…]

(Reale Accademia d’Italia Fondazione Alessandro Volta, Convegno di scienze fisiche, matematiche e naturali, Tema: Lo stato attuale delle conoscenze sulla nutrizione, Roma 1938-XVI, pp. 491.492)

Ancora più interessante è il passo in cui Visco descrive, tra l’altro,
un singolare modo di preparare il pane, in uso presso gli “abissini”:

[…]
L’abissino consuma in generedue pasti principali, uno prima di mezzogiorno, l’altro poco dopo il tramonto. Tutti i viaggiatori concordano nell’affermare che, malgrado un’apparente semplicità, la cucina locale ha molte varietà e complicanze.
La base fondamentale dell’alimentazione indigena è il pane (engera degli abissini, buddera dei Galla), ed è confezionato con pasta di farina leggermente fermentata per un paio di giorni in acqua abbondante. Esso si fa con ogni specie di farina, ma il migliore è quello preparato con teff.
Merita particolare rilievo il pane fatto con una farina tratta dalla Musa ensete (cocciò dei Kaffini). Giunta la pianta a sei anni di vita se ne tagliano le foglie a fior di terra ed aprendo con un coltello le costole da cima a fondo se ne raschia la sostanza che vi è contenuta. Questa sostanza viene sepolta nel terreno, un una buca rivestita di foglie della stessa Musa, e vi si lasciafermentare per sei mesi, dopo i quali la sostanza appare trasformata in una massa bianca pastosa simile a quella del fiore di farina. Questa pasta, prima di essere panificata, si tagliuzza in piccoli pezzi, e si stempera nell’acqua. Indi se ne fanno grosse pagnotte del diametro di circa mezzo metro ed alte 5 centimetri. Un pane della grandezza sopra detta è talmente pesante che un ragazzo stenta a portarlo. I Kaffini, avvezzi a mangiare un cibo di così difficile digestione, quando mangiano pane di frumento credono di non avere mangiato e non si reputano mai sazi.
Anche le radici della Musa ensete forniscono un cibo abbastanza ricercato che ha il sapore press’a poco delle patate e si prepara in mille maniere. Il Kaffino, forse in ragione di questa sua alimentazione particolare, ha un’addome molto voluminoso che fa contrasto con conformazione fisica del resto del corpo (Massaja).
Cibo abbastanza diffuso, specialmente durante i viaggi, è il bessò, cioè farina di orzo abbrustolito impastata con acqua melata. Serve per pane e per pietanza, e sciolto in acqua semplice diventa una bevanda di sapore gradevole. Nelle stesse condizioni è adoperata una pasta fatta con farina di semi di lino abbrustolito e miele.
[…]

(Ibidem, p. 514)

Le seguenti tabelle sono presentate da Visco al convegno, durante la sua relazione.
Esse sono il risultato di osservazioni condotte sull’alimentazione di “famiglie di indigeni del villaggio di Porta Tagiura (Tripoli)”. Vi sono riportati i dati relativi a tre pasti tipici effettuati: nella prima tabella da una “famiglia il cui capo esercita il piccolo commercio (rivenditore di generi alimentari ecc.). Condizione economica: relativamente benestante”; nella seconda tabella da una “famiglia il cui capo compie un lavoro pesante (scaricatore di porto). Condizione economica: vive con proventi del suo lavoro”; nella terza tabella da una “famiglia il cui capo compie un lavoro moderato dal quale trae mezzi di sussistenza per tutta la famiglia”. (Ibidem, p. 503)


 




 
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